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Art Tracker, alla scoperta di nuovi talenti. Intervista a Marco Rossetti

Aggiornamento: 9 giu

Elisa Muscatelli Come è iniziato il tuo percorso artistico? Ci sono stati riferimenti che hanno plasmato in modo importante la tua carriera? Marco Rossetti I miei riferimenti artistici sono sicuramente quegli artisti che nella storia hanno lavorato sul fotografico più che sulla fotografia per eccellenza, e quindi penso a tutta l’arte dell’appropriazione come Cindy Sherman , Richard Prince o Levin, come tutta la Scuola di Düsseldorf, in particolare Thomas Ruff. Loro hanno utilizzato la fotografia come un elemento che potesse essere plasmato, che potesse essere utilizzato per arrivare a un altro fine, che non sia solo il racconto e che non sia solamente la bellezza dell’immagine in sé. Paesaggi che vengono scomposti, strutture alterate, tracce di memorie storiche e archivi ritrovati. In che modo prende forma il tuo rapporto con il tempo storico? La storia per me è sempre veicolata dagli occhi di una singola persona, o da un gruppo, o da una piccola comunità. Soprattutto la cosa che mi interessa è di analizzare il processo del cervello nei confronti dei ricordi, come si comporta nella gestione di essi, soprattutto quando ci sono degli eventi che sono difficili da ricordare o che sono semplicemente veicolati da illusioni. Anche come la società lavora sulla gestione dei ricordi e sulla gestione delle immagini che hanno a che fare con la memoria.


E.M. Alcune opere vengono assalite da elementi scultorei violenti: lance, frecce, tagli netti della superficie che cambiano la fisionomia dell’opera. Da cosa nasce la scelta di unire due media così apparentemente diversi come quello della scultura e della fotografia? M.R. Cerco di utilizzare la fotografia come materia prima e quindi cerco di avere una libertà nei confronti dell’immagine che non sia vincolata dalla leggibilità o dalla fruibilità di quel determinato scatto. Per me la possibilità di distorcere l’immagine, di modificarla, di tagliarla, di affettarla, è molto stimolante, e delle volte l’utilizzo di quelle fotografie in una versione più scultorea è indispensabile per veicolare un determinato messaggio. L’importanza di quell’opera poi non ha più a che fare con cosa è presente nell’immagine e cosa rappresenta quella fotografia, ma è più che altro il contesto in cui si trova quella fotografia.


E.M. Una tua opera, Flatland, prende come riferimento il celebre racconto di Edwin A. Abbott, che ci introduce in un mondo formato da una dimensione piana e mette in discussione tutte le regole spaziali. Come si esprime nella tua ricerca artistica la dimensione spaziale?


M.R. Flatlandia per me ha una doppia valenza, un doppio significato. Il libro parla di una rivelazione, di una scoperta che era sotto gli occhi di tutti e che nessuno riusciva a vedere,di una dimensione che le persone non riuscivano a comprendere, e questa cosa si lega alla ricerca che faccio nella gestione che il cervello ha dei ricordi, e si lega anche all’elemento fotografico, al fatto che la fotografia pensata sempre in maniera bidimensionale nei miei lavori possa poi diventare altro, e possa diventare un elemento che ha a che fare con le tre dimensioni, proprio come il libro Flatlandia in cui il protagonista scopre la terza dimensione.


E.M. In Edit canc4,le tracce dell’essere umano vengono rimosse aprendo una riflessione sulla presenza, la censura e il gesto artistico.Come vedi il ruolo dell’artista all’interno della società nel contemporaneo?


M.R. Credo che seppur l’artista debba essere immerso nella società e nella realtà che lo circonda, secondo me non dovrebbe avere il ruolo di narratore, ma dovrebbe avere la libertà della complessità. Perché la ricerca è qualcosa di più profondo e che molto spesso non ha una visione oggettiva, e che forse non deve averla. L’artista soprattutto dovrebbe avere il ruolo di portare il fruitore a non essere passivo nella fruizione delle immagini, dovrebbe riuscire a portarlo dalla superficie alla profondità e far capire che probabilmente a molte cose non c’è una risposta.



Marco Rossetti, Capua, 1987, vive e lavora tra Napoli e Firenze. Si forma al triennio e al biennio in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli proseguendo il suo percorso artistico attraverso residenze e workshop sviluppando un linguaggio interdisciplinare che lo porta ad indagare i vari aspetti della materia artistica tra fotografia, archivio, pittura e scultura.

Tra le sue mostre recenti Come una stella di giorno, Galleria Nicola Pedana, Caserta, 2021; Icono Smash, Palazzo Rinuccini, Firenze, 2019; Forget/forgive,Penta Space, Firenze, 2018. E’ stato recente vincitore di Level 0, Museo Madre, 2021, della dodicesima edizione del Premio Combat, 2021 e del premio Buris, 2021.

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Art Tracker, alla scoperta di nuovi talenti. Intervista ad Anna Marzuttini

Aggiornamento: 2 lug 2020

Anna Marzuttini (Gemona del Friuli, 1990) è una pittrice che vive e lavora tra Cerneglons (UD) e Venezia. Consegue nel 2018 il diploma di Secondo Livello in Arti Visive e Discipline dello Spettacolo con indirizzo Pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Durante gli anni passati in Accademia partecipa a diversi workshop ed esposizioni collettive organizzate dall’Atelier F, a cura del professore Carlo Di Raco.

Nel 2017 prende parte alla mostra collettiva di Grafica d’Arte “Guardatemi il più possibile” alla Galleria internazionale d’Arte Moderna, Cà Pesaro (Venezia). Nel 2018 ottiene uno studio presso la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia. Nel 2019 è una delle tre vincitrici del Combat Prize nella sezione Art Tracker che la porta a partecipare ad un’esposizione collettiva, insieme a Giorgia Valli e Clarissa Baldassarri, presso Lucca Art Fair 2020.


Genealogia di un fiore di tarassaco, 2019, 200x160 cm - credit Anna Marzuttini
Genealogia di un fiore di tarassaco, 2019, 200x160 cm - credit Anna Marzuttini

Come definiresti la tua pratica artistica e quali sono le tematiche che indaghi?

Credo che una caratteristica fondamentale della mia pratica artistica sia l’istintività. Nel momento in cui il pennello entra in contatto con la tela devo sentirmi interessata a qualche forma ma contemporaneamente svincolata da altre responsabilità, altrimenti il pensiero ed il segno si irrigidiscono, perdendo la spontaneità che, nel mio caso, credo sia un fattore irrinunciabile del mio lavoro. Le decisioni più ragionate le prendo a distanza dal quadro, senza che possano inibire i gesti più espressivi.

La tematica principale intorno a cui si sviluppa il mio lavoro è il “selvatico”, inteso come ciò che è indisciplinato, ruvido, spinoso, inospitale. Sono attratta da tutto ciò che è lontano dall’artificio umano, per quanto possibile. Mi affascina la naturalezza in cui la vita si è sempre sviluppata e come potrebbe continuare a svilupparsi anche senza l’uomo, prendendo strade imprevedibili. Mi interessano molto le forme organiche, mi danno la possibilità, tramite il disegno, di esteriorizzare ed archiviare delle informazioni estetiche che poi vengono rielaborate all’interno dello spazio della tela, dando vita a nuovi piccoli mondi mentali.


Quando hai deciso che ti saresti occupata di arte?

Non penso di averlo mai veramente deciso. Credo che in qualche modo non avessi altra scelta, ho sempre avuto una netta predisposizione verso la manualità e il disegnare è sempre stata un’attività spontanea, una necessità. Quindi, dopo il Liceo Scientifico, ho deciso di iscrivermi all’Accademia Di Belle Arti di Venezia, dove ho scoperto la pittura che nel tempo è diventata la mia occupazione principale.

Radici, 2019, 29,7 x 21 cm cadauno - credit Anna Marzuttini

Ti sei formata a Venezia: come ha influito questo specifico contesto nella definizione del tuo lavoro?

Venezia è stata una tappa fondamentale per la definizione del mio lavoro. Oltre al fatto di aver avuto la possibilità di vivere per anni in una città d’arte, di scambi culturali e ricca di stimoli, se non avessi frequentato l’Accademia di belle Arti e nello specifico l’Atelier F, il corso del professore Carlo di Raco, forse non sarei mai arrivata a raggiungere la stessa consapevolezza della pittura che ho oggi. Ci sono capitata quasi per caso, ed è stata una fortuna: ho trovato un ambiente molto formativo e stimolante, dinamico e basato sulle peculiarità delle persone. Grazie all’Accademia, si è formata a Venezia un’ottima concentrazione di talentuosi giovani artisti, di cui una buona parte dopo aver concluso il percorso di studi, ha deciso di fermarsi in città condividendo spazi dove continuare a lavorare e mantenendo una rete di legami tra i diversi nuclei. Questo grazie anche alla peculiare conformazione della città che, essendo particolarmente a portata d’uomo, favorisce i rapporti tra i suoi abitanti.

Germinazione, 2019 (allestimento Opera Viva) - credit Anna Marzuttini
Germinazione, 2019 (allestimento Opera Viva) - credit Anna Marzuttini

La tua pratica comprende la pittura e l’illustrazione. Ci sono degli interessi o delle direzioni comuni? Stai sperimentando anche altre tecniche?

Pittura e illustrazione per me sono due linguaggi diversi ma in qualche modo confinanti. L’illustrazione, essendo un’arte applicata, è caratterizzata da un aspetto narrativo intrinseco con il quale un illustratore si deve confrontare, mentre la pittura deve essere espressione libera, pura ricerca e sperimentazione.

Per me la pittura ha tempi lunghi, nel senso che ci vuole più tempo a capirla e a metabolizzarla, ed è imprevedibile perché il risultato non sarà mai quello che avevo in mente ma mi sorprenderà sempre. Diversamente sarebbe limitante.

Nell’illustrazione, anche grazie a strumenti come il digitale, un’immagine può essere modificata più volte, in modo controllato, fino a ottenere il risultato desiderato, dando ben poco spazio al caso. Inoltre, l’illustrazione ha una natura prettamente figurativa e narrativa mentre nella pittura questi aspetti, nel mio caso, non sono palesati.

Cerco di portare avanti parallelamente entrambe le discipline ed esse si nutrono l’una dell’altra. Grazie alla ricerca pittorica il mio approccio all’illustrazione cerca di essere più sperimentale sia riguardo al linguaggio che alla tecnica, d’altro canto l’illustrazione mi aiuta ad avere una visione più razionale e precisa nell’elaborazione di un’immagine. Ultimamente sono incuriosita anche da altre tecniche, come ad esempio la scultura che vorrei far dialogare con la pittura.

Appunti,2019, dettaglio allestimento Opera Viva - credit Anna Marzuttini
Appunti,2019, dettaglio allestimento Opera Viva - credit Anna Marzuttini

Oltre alla partecipazione alla prossima edizione di Lucca Art Fair, che progetti hai in programma per il futuro?

Per tutto il mese di febbraio parteciperò ad un workshop organizzato da Fondazione Malutta allo spazio Punch in Giudecca (Venezia). Vorrei poi prendere parte a qualche residenza d’artista, specialmente all’estero. Nel frattempo, continuo a lavorare, come sempre.


- Il team di CampoBase (Irene Angenica, Bianca Buccioli, Emanuele Carlenzi, Gabriella Dal Lago, Ginevra Ludovici, Federica Torgano, Stefano Volpato)


LUCCA ART FAIR - ART TRACKER

Dal 27 al 29 novembre 2020

Casermetta San Frediano, via delle Mura Urbane - 55100 Lucca

T +39 3311303702

E info@luccaartfair.it

W www.luccaartfair.com

La mostra è visitabile nei seguenti orari

venerdì: 17.00 - 20.00; sabato e domenica 10.00 - 20.00


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Gasworks: 25 anni di residenze e scambi culturali

Aggiornamento: 3 mar 2019

Gasworks è un’organizzazione artistica senza scopo di lucro, fondata nel 1994, che opera sia nel Regno Unito che a livello internazionale. Fornisce studi per artisti emergenti che hanno sede a Londra e residenze per artisti internazionali alla loro prima mostra nel Regno Unito, sostenendoli e dando loro l’opportunità di dedicare tempo alla ricerca e allo sviluppo di idee, in un panorama emozionante che una città come Londra può offrire. Combat Art Review ha incontrato il direttore Alessio Antoniolli.


Il direttore di Gasworks Alessio Antoniolli

1. Quest’anno ricorre il 25°anniversario di Gasworks. Potrebbe fornirci una panoramica su cosa è Gasworks nel 2019 e che cosa è stato realizzato dal 1994?


Molte cose sono state realizzate: adesso ci troviamo in uno spazio sicuro, siamo stati in grado di acquistare l’edificio non molto tempo fa e questo ci dà un senso molto più chiaro del futuro. Negli ultimi 25 anni, abbiamo lavorato con oltre 500 artisti provenienti da 80 paesi di tutto il mondo. Questo è un incredibile track record, non solo per il numero di artisti, ma anche per il respiro di Gasworks e la sua abilità di uscire dai principali centri artistici europei e nordamericani, per cercare di sostenere e promuovere talenti su scala più globale. L’attenzione di Gasworks è rivolta agli artisti e non solo all’arte. Lavoriamo con persone che fanno arte, ecco perché fin dall’inizio abbiamo mantenuto gli studi, abbiamo gestito le residenze e continuiamo a lavorare con gli artisti verso la produzione della loro mostra. G. stabilisce la sua identità come spazio per gli artisti, ma è anche uno spazio per i processi curatoriali e le idee, pur mirando a riflettere la direzione che gli artisti emergenti stanno prendendo. Il formato del programma è cambiato molto poco nel corso degli anni, ma il suo contenuto viene costantemente aggiornato dagli artisti. Naturalmente, questo non avviene in modo isolato. L’evoluzione di Gasworks avviene in risposta agli artisti, ma anche al suo contesto, basandosi sulle organizzazioni di pari livello e sul sistema dell’arte a Londra, del Regno Unito, ecc. G. è stata fondata qui, nel sud di Londra, perché era in una parte della città abbastanza centrale ma completamente sottosviluppata e quindi economicamente accessibile a noi e agli artisti che affittano i nostri studi. Le cose sono cambiate adesso ed infatti uno dei nostri vicini di casa è l’Ambasciata americana. Abbiamo avuto la fortuna di poter acquistare il nostro edificio 4 anni fa, mettendo le nostre radici: questo ci ha assicurato il futuro in un paesaggio che cambia costantemente e diventa sempre più inaccessibile. Sono qui da 21 su 25 anni di vita di Gasworks, quindi professionalmente parlando, siamo “cresciuti insieme” e molte cose sono cambiate nel corso di questo tempo. Mentre il mondo e le sue politiche stanno cambiando, mentre questa ondata di populismo e nazionalismo sta prendendo piede, trovo che lavorare a livello internazionale, al di là delle frontiere e della cultura sia diventato paradossalmente più radicale oggi di quanto non lo fosse 15 anni fa e penso che questo sia un triste riflesso della situazione attuale. Ma per le persone come me e per molti altri che credono nello scambio culturale e nel dialogo internazionale, la situazione attuale non fa che confermare e rinnovare il nostro impegno e la nostra determinazione in questo lavoro.

2. Quanti artisti ospitate in un anno e come sviluppate i programmi?


Abbiamo 13 studi, quattro dei quali sono destinati a quattro gruppi di artisti internazionali che vengono per 3 mesi, quindi gestiamo 16 residenze in un anno. Gli altri 9 studi sono affittati ad artisti londinesi per un periodo di 5 anni. Inoltre organizziamo quattro mostre, per lo più personali. Molto raramente le residenze sono collegate alle mostre, in quanto le residenze sono più focalizzate sulla ricerca e sullo sviluppo, mentre le mostre sono realizzate su commissione. La natura aperta delle residenze è importante per me, soprattutto se l’artista è nuovo a Londra. In questo caso, avere una mostra alla fine del periodo di residenza creerebbe molta pressione e limiterebbe la sperimentazione e l’esplorazione di Londra, come luogo per nuove idee e ricerca. Oltre alle residenze e alle mostre, lavoriamo con altri due artisti ogni anno in una residenza di sei mesi, che porta ad un lavoro in collaborazione con i gruppi della comunità del nostro quartiere.


3. Quali sono le nuove esigenze degli artisti?


È molto importante salvaguardare spazi di dialogo e di sperimentazione in un contesto come Londra, dove la vita è molto costosa ed il mercato dell’arte è una grande necessità. Le residenze e gli studi sovvenzionati sono vitali per sostenere lo sviluppo creativo degli artisti, soprattutto nelle prime fasi della loro carriera, quando potrebbero non avere il supporto delle gallerie commerciali. Questo è un momento molto critico nella carriera degli artisti e hanno bisogno di uno spazio disposto a rischiare, che sia in grado di investire sul loro potenziale. Mi piace dunque pensare che Gasworks sia uno di questi spazi.

4. In questo particolare momento storico, è fondamentale continuare a sostenere collaborazioni, scambi culturali e dialoghi. Come è cambiato il sistema di residenze nei suoi anni alla Gasworks e cosa sta cambiando adesso?


Negli ultimi 20 anni il sistema arte è diventato molto più sofisticato. Collezionisti, filantropi ed il grande pubblico vedono i luoghi più piccoli e sperimentali come un’opportunità per trovare nuovi artisti, idee e approcci. Anche il mercato dell’arte si è ampliato ed è diventato più globale. Questo ha anche reso l’arte accessibile a più persone. Sarebbe stato impensabile 5-10 anni fa avere un gruppo di collezionisti che supportassero una residenza a Gasworks, dove l’investimento sta nello sviluppo degli artisti piuttosto che nell’opera d’arte. Siamo molto fortunati adesso ad avere un sostegno significativo da parte dei privati, che ci permettono di invitare artisti provenienti da paesi o regioni dove la struttura di finanziamento è estremamente limitata o inesistente. È diventato uno sforzo congiunto tra Gasworks e molti individui visionari, per fornire residenze ad artisti che possono potenzialmente diventare parte di una conversazione più internazionale, attraverso il loro lavoro e l’esposizione a nuove idee ed opportunità.



5. Chi sono i sostenitori nel 2019?


Il nostro principale finanziatore è l’Art Council of England, poi ci sono trust e fondazioni nel Regno Unito e a livello internazionale. Abbiamo anche un gruppo in espansione di collezionisti, filantropi e persone che hanno una passione per l’arte e per gli artisti. I collezionisti stanno diventando più avventurosi, non sono interessati solo agli artisti affermati, ma sono più disposti a correre rischi. Sono anche consapevoli che acquistare opere da artisti emergenti è un modo per sostenere la loro carriera e diventare parte del loro viaggio.

6. Triangle Network è una rete di organizzazioni di artisti internazionali e arti visive che fornisce supporto e sviluppo e Gasworks fa parte di questo sistema globale di connessioni. Qual è il piano di Triangle Network nel 2019?


Triangle Network è in realtà la rete che ha dato vita a Gasworks. È nata nel 1982 e si è sviluppata come una rete internazionale di partner, ancora prima che Gasworks esistesse. Mentre nel corso degli anni, Gasworks è diventata il fulcro principale ed io sono diventato il direttore della Rete, la maggior parte dei nostri partner ha sede in Africa, Asia e America Latina. È anche importante dire che, mentre io gestisco lo sviluppo della rete, ogni partner è completamente indipendente. Siamo insieme grazie a simili metodologie e ad un impegno comune per la creazione di scambi. Per anni, la rete si è basata su donazioni provenienti da fondazioni e ONG, ma questo sostegno sta diminuendo rapidamente. Forse è giunto il momento che Triangle Network si interessi a come può costruire il proprio modello sostenibile, un modello che dipenda meno dalle donazioni sporadiche. Stiamo cercando di creare un fondo che sostenga la rete, a cominciare dai partner che operano in luoghi dove le risorse sono più limitate. La riduzione dei finanziamenti sta minacciando il futuro di molti dei nostri partner, spesso non lasciando nulla al loro posto. Inoltre, questa situazione sta minacciando il dialogo che si è instaurato nel corso degli anni, ritornando ad un flusso unilaterale di idee ed informazioni estremamente problematico. In quest’ottica è fondamentale trovare un livello di un sistema di auto sostentamento per le reti e per i suoi partner. Per fare questo, cerchiamo di unire le forze e pensare. Al momento stiamo lavorando ad un possibile programma di scambio tra i nostri partner in Sudafrica, Uganda, Zambia e Zimbabwe, che speriamo di estendere presto ad altre aree della rete.


7. Ci può parlare un po’ della attuale mostra di Libita Clayton alla Gasworks?


Lavoriamo con una fondazione chiamata Freelands Foundations, che ci sostiene per creare legami con artisti ed organizzazioni che hanno sede fuori Londra. Questo programma si occupa del divario tra Londra ed il resto del Regno Unito e mira a creare un miglior flusso di idee ed opportunità. Libita Clayton è stata invitata a far parte di questo programma, che comprendeva una residenza e, in seguito, una mostra alla Gasworks. Siamo stati in grado di facilitare la sua ricerca a Londra ed in Cornovaglia, così come in Sudafrica e Namibia, mentre ricercava le sue radici familiari nel suo viaggio. In particolare, ha studiato l’esilio di suo padre dalla Namibia all’Europa, finendo in Cornovaglia per lavorare nell’industria mineraria. Nel suo lavoro considera il ruolo dell’estrazione mineraria come la chiave di un processo di estrazione coloniale, non solo per il suo effetto sulle persone, ma anche per il commercio geologico. La mostra prende la forma di un archivio sonoro, formato da una serie di fotogrammi che tracciano la sua ricerca e servono come spartito musicale per una composizione che ha creato con altri artisti, musicisti e ingegneri del suono. In questo modo, l’archivio è accessibile in modo più esperienziale, attraverso le emozioni, le sensazioni ed i sentimenti che suscita nello spettatore.



- Carolina Rapezzi

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