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Ci sono momenti dell’esistenza che si guarda il mondo nello stesso tragico modo. Non per forza deve essere lo stesso universo. Sovente infatti è un altro ma i risultati paiono gli stessi. In questa mostra vi è un dialogo concettuale spesso congruente tra le opere di Francisco Goya e George Grosz.

Questi due artisti, anagraficamente lontanissimi, esprimono una satira verso la società del tempo che non può non ricordarci certe brutture della nostra realtà. La superstizione, la miseria morale, l’affidarsi a ciarlatani sono solo alcuni dei temi che accomunano i due autori.

Certe trovate danno poi l’idea di citazioni precise di Grosz nei riguardi di Goya.



Francisco Goya, Linda maestra, Acquaforte, acuatinta e puntasecca,1799, cm 21,4 x 15, Collezione privata, Parigi, Crediti Fotografici Elizabeth Krief



George Grosz, The Galdston Taboo, Inchiostro su carta, 1941, cm 55,9 x 48,8, Crediti fotografici: George Grosz Estate, Courtesy Ralph Jentsch Berlin


Una mostra dove, insomma, il mondo e i suoi abitanti si mostrano per la loro inettitudine e povertà etica. Nessuno pare poter emergere da queste opere in modo positivo. Sembra che, tra tanti decenni di differenza, nulla sia cambiato. In fondo però le brutture espresse nelle opere in mostra ci esemplificano un uomo che decide, anche se in modo sbagliato



George Grosz, A Piece of My World II/ The Last Battalion, olio su tela, 1938, cm 100 x 140,30, Crediti fotografici: George Grosz Estate, Courtesy : Ralph Jentsch Berlin



Francisco Goya, tavole da I disastri della guerra-33-Que hay que hacer mas – 1810-1814 ca., cm 15,7 x 20,7, Collezione privata – Parigi, Crediti fotografici: Elizabeth Krief




Le recenti vicende non hanno certamente aiutato a vedere in modo progressista tali opere. La normativa alfanumerica sta sostituendo l’umanità. L’uomo si trova intrappolato in questi ambiti e non ha modo di esprimersi. Anche nel suo peggiore dei modi.


STEFANO TADDEI


GOYA-GROSZ Il sonno della ragione

A cura di Ralph Jentsch e Didi Bozzini

Fino al 13 gennaio 2023

Palazzo Pigorini,

Parma Str. della Repubblica, 29A

Informazioni: https://www.comune.parma.it/cultura/evento/it-IT/GOYA---GROSZ-Il-sonno-della-ragione.aspx


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Aggiornamento: 30 dic 2022


L’Italia è un fiorire di campanili. E’ altresì una gran fucina cantautoriale. Certe “ scuole “ hanno fatto storia e tale libro ne vuole rendere conto.

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Si ricorda l’esperienza seminale dei Cantacronache, alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, dove passarono vari intellettuali del tempo come la vittoria di Modugno al Festival di Sanremo con Nel blu dipinto di blu nel 1958. Da qui nasce la canzone d’autore. Una delle prime scene è quella genovese. Paganini, De André, Paoli propongono un percorso malinconico. Anche ora vi è una scena più giovane. Al tempo di De André a Genova arrivava molta musica americana, con posti dove si ascoltavano queste sonorità. Il capoluogo ligure aveva anche cabarettisti e comici di gran livello. Anche Natalino Otto era di Genova e anche Fontana aveva vivacizzato l’arte figurativa. Luigi Tenco, piemontese ma genovese d’adozione, è attento al disagio interiore della sua età. Vian fu modello importante d’Oltralpe. I primi successi di De André, sempre attento agli ultimi ed estimatore del francese Brassens, si evidenzieranno verso la fine degli anni Sessanta. Poi fu la volta di Gino Paoli, anche lui attratto da autori francesi come Trenet e all’esistenzialismo. Egli dipinge spazi e una città senza tempo. Delle stesse influenze pareva impressionato lo scomparso Umberto Bindi. Anche di Piero Ciampi, livornese, non ci si può dimenticare per l’attitudine da cane sciolto e per la sua vita di eccessi che traspariva dalle proprie canzoni. Paolo Conte è il re della scena piemontese, autore amato forse più all’estero che in Italia, dato il genere musicale trattato. Egli racconta lo spaesamento di certi soggetti nella realtà in cui sussistono. Con altrettanta voglia di jazz si muove Giorgio Conte, attento ad espletare una sperimentazione sonora dove la gente comune rimane vera protagonista. Di questa scuola faceva parte anche Gianmaria Testa, anche lui molto interessato a ciò che succedeva In Francia e fautore di canzoni legate al lato autobiografico ma attente anche alla nostalgia del vivere. Fred Buscaglione ha rappresentato l’autore maudit, intento a bucare il moralismo che si respirava in Italia in quel periodo. Luigi Tenco, piemontese, si inserirà molto bene nella scena genovese. A Milano, attorno agli anni sessanta prende il via l’avventura del Nuovo Canzoniere Italiano, dove gravitarono personaggi come Dario Fo o Enzo Jannacci. Molto importante fu il contributo del primo. Il gruppo si sciolse e si riformò all’inizio degli anni Settanta. Poi è la volta di Giorgio Gaber, che debuttò nel 1970 a Seregno. Erano monologhi e musica, cioè teatro-canzone. A Milano debuttò l’anno successivo. Egli racconta un città ambrosiana che non è ancora metropoli, fatta di personaggi e avvenimenti peculiari. Nel 1964 esordisce Enzo Jannacci, autore attento al dialetto, alle pause e alle storie della parte più infima della società. Dopo gli inizi insieme Gaber e Jannacci presero strade diverse. La Milano più grottesca trova nei Gufi i maggiori interpreti, Memo Remigi tenta invece un approccio più romantico alla realtà e Roberto Vecchioni sposa la propria vena autobiografica. Eugenio Finardi e Alberto Camerini rappresentano l’ala più dura del rock urbano. Sui suoni antichi si basa invece la ricerca di Angelo Branduardi. Enrico Ruggeri, esordì negli approssimativamente punk Decibel. Da solista si occuperà di un raggio che va dalle storie urbane fino alle solitudini estreme. Gli anni Duemila vedranno affacciarsi il rap, una nuova modalità di canzone d’autore. Le tematiche sono quelle della strada, il mito del lavoro che premia, il bello e il brutto che coesistono. La vita rimane dura in queste interpretazioni e diventa rock, hip hop o trap, senza grandi confini estetica. Si passa a Bologna, dove la fa da padrone ( anche se è nato a Modena ) Francesco Guccini. All’inizio ispirato dalla canzone francese tramite la Liguria, in seguito sarà attento al magistero di Bob Dylan e un’America sognata. Grande affabulatore, ha saputo mischiare il cantato e il parlato in modo unico. Dal jazz arriva Lucio Dalla, per poi descrivere una città che letteralmente amava e dopo essere stato folgorato da influenze desunte da Battisti e De Gregori. Dalla aiutò ad emergere anche Samuele Bersani. Tenco fu un suo mentore. Vasco Rossi sembra essere un unicum, non essendo particolarmente influenzato da nulla di precedente o coevo. Il suo è “ dissenso generazionale “, dove i Rolling Stones paiono l’unico metro di paragone possibile. Luca Carboni parte dal punk con il gruppo Theobaldi Rock, per poi passare, ancora grazie a Dalla, a scrivere proprie canzoni. Si arriva poi a Bertoli e alla sua canzone di denuncia sociale, usando in modo accorto il dialetto e raccontando il folle mondo che ci circonda. Su Bologna gravita anche Adelmo Fornaciari, mentre nell’ultimo decennio il nome di punta pare essere Cesare Cremonini. Tra anni Settanta e Ottanta in ambito nazionale e internazionale vediamo l’emergere di figure femminili come Roberta Giallo, Gianna Nannini, Teresa De Sio e poi, negli anni Novanta, è la volta di Carmen Consoli. L’autore passa poi alla realtà napoletana e ci parla Renato Carosone, aperto a varie influenze. Si esibì anche in America, riuscendo ad essere apprezzato in tutta l’Italia. Gli anni Settanta vedono le prime gesta di Pino Daniele, che mischia Napoli ai magisteri di mostruosi chitarristi come Pat Metheny ed Eric Clapton. La sua ironia lo lega a Edoardo Bennato, influenzato da blues e rock’n’roll. Non bisogna scordarsi che in tale ambito muove i primi passi Teresa De Sio. Si passa poi nella capitale dove De Gregori e Venditti furono autentici re nel cantautorato. Il principe ha studiato a fondo Bob Dylan e la letteratura americana, mentre il Folkstudio fu la fonte in cui si abbeverò copiosamente Venditti. Fabrizio Moro , Carl Brave e Ultimo sono solo alcuni degli autori più giovani che tengono fiorente la scena capitolina. Spostandoci ancora più a sud si arriva in Sicilia. A Catania c’era un gran fermento,già dagli anni Settanta. Franco Battiato andò prima al nord per poi capire che poteva fare la sua musica di ricerca spirituale anche stando in Sicilia. Un gruppo molto importante, che faceva new wave come i Litfiba, furono i Denovo. Si ricorda poi Mario Venuti, autore che, da influenze brasiliane, passò in seguito alla canzone classica d’autore. Importantissima fu la casa discografica Cyclope. Negli ultimi tempi si ricorda Colapesce, ma prima, negli anni Novanta, mosse i propri passi che andarono oltre la Sicilia “ la cantantessa “ Carmen Consoli. Raccontando vicende siciliane, nell’ultimo decennio ha trovato riscontro l’opera di Kaballà. Anche qui il rap può dare nuova linfa, vedi l’esempio di Marracash.

Per concludere, in tempi come questi, è difficile l’emergere di nuovi cantautori, essendo il fenomeno bisognoso di humus per poter maturare. I tempi, oggi,

sembrano continuamente fagocitare esperienze per poi espellerle malridotte.


STEFANO TADDEI

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Aggiornamento: 30 dic 2022



Siamo in congiunture in cui di ideologia è meglio non parlare, pena non farsi capire dal mucchio selvaggio della moltitudine. Nel mondo dell’arte la situazione non è migliore. L’autore ci spiega come questo concetto si è evoluto, in chiave principalmente politica ma che non può che aver influenzato altri ambiti, non ultimo quello artistico.


L’ideologia, innanzitutto, è un modo per guidare il soggetto a sposare certe idee e, sovente, non si deve esemplificare. Sussiste a se stessa. Passioni e simboli aiutano le forze mobilitanti ideologiche. Qui l’arte può avere un grande potere d’ancella di certe concezioni del mondo. Ideologia, per l’autore, è sia critica che progetto. Difficile rimane però darne una definizione definitiva. Da Platone in poi si è pensato alla realtà come apparenza, dive andare a scoprire qualcosa di altro. Qui si generano nuovi mondi, s’immagina, in senso metafisico, di portare l’Idea nel mondo. Qui l’arte non rimane muta ma tenta di assecondare questa modalità. Per Heidegger il mondo si muta tramite la stessa crisi di una determinata congiuntura grazie “ alle forme oltre-concettuali della poesia “. Per Adorno non c’erano più opere d’arte ma prodotti dell’industria culturale e le ultime generazioni francofortesi tentano una critica ideologica dall’interno-esterno. Si arriva a Žižek, che pensa che il simbolico, come atto e non come ideologia, sia l’unico modo di cambiare lo status quo. L’umanità, dalla modernità, pare avere nelle proprie mani il suo destino. La scienza, già al tempo di Bacone, criticava l’ideologia come conoscenza abituale. Ciò deve riverberarsi nella società e diventa arma politica. Lo Stato è ordine ma c’è anche chi vuole altro, come ci dimostrano gli esempi di Spinoza e Rousseau. La nascita del capitalismo genera una nuova società europea, pure con una specificità intellettuale. Alla fine del Settecento nascono grandi diatribe tracollettività e politica statale. La ragione si fa ideologia di un mondo dove deve esserci uguaglianza civile ma non sociale. Con la Rivoluzione francese fede e ragione escono rimpicciolite ad ideologie. Hegel le criticherà entrambe, altri accuseranno ideologie successive, segno che la verità del pensiero sono estremamente precarie. Anche la Chiesa cattolica si è dovuta confrontare con il turbinio della modernità e ha dovuto esemplificare una propria dottrina sociale. Poi, durante l’Ottocento, si staglia anche il conservatorismo ma il vero cambio di marcia non solo ideologico sarà la rivoluzione russa del 1917. Qui la verità trionfa sull’opinione. E’ anche la fine della libertà espressiva per tanti autori. Solo gli artisti che si adeguano al Regime totalitario avranno possibilità espressive. Poi sarà la volta di fascismo e nazismo. Il fascismo sembra quello più lontano ad un’ideologia, “ definendosi più come un pragmatismo”. Resta il fatto che in questi tre regimi la dottrina è totale e vi è il tentativo del dominio totale delle coscienze. Dopo la Seconda guerra mondiale, fino al dissolversi dei regimi comunisti, il mondo si è diviso tra totalitarismo e società aperte. Tra Sessanta e Settanta cresce il femminismo ma è dal 1991 che la struttura occidentale liberaldemocratica-capitalistica risulta vittoriosa, ad eccezione della Cina e del suo tipico comunismo. Il neoliberalismo, dove la politica deve solo aiutare l’economia, ha lasciato molti cadaveri. Ogni sapere diventa abilità e diviene “ pensiero unico “. Chi controlla certi centri di comunicazione ha più possibilità di successo, anche in campo artistico. Non bisogna avere grandi idee per emergere, ci vogliono quelle del momento o le amicizie giuste nei canali giusti. L’arte sposta il proprio baricentro, anche lei sempre più asservita al capitale. L’autore, non facendo più gruppo, si trova a redimersi in tale sostrato finanziariamente dominio. Il neoliberismo non ha mantenuto le proprie promesse e sono nate nuove ideologie che però non hanno ancora potuto soppiantare l’esistente. Lo stesso si può notare nell’arte, dove agli intellettuali si sono sostituiti i personaggi televisivi. Siamo in un mercato delle verità, dove reale e virtuale si innestano uno con l’altro nel politicamente corretto e dove sorgono rivendicazioni che vogliono riscrivere la storia. La società aperta si mostra molto più limitante per l’essere ma permangono ideologie, sovente confuse, che ancora tendono ad un cambiodella solita politica. Anche l’arte può avere la sua parte in questa situazione in itinere.


STEFANO TADDEI

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